Saggio su Renato Serra (1939)

«Civiltà fascista», a. VI, n. 3, marzo 1938, pp, 224-232.

SAGGIO SU RENATO SERRA

«Problemi piccoli, problemi grandi non esistono: esistono uomini fiacchi, uomini forti». Serra non cercava formule di sistemazione, mirava a quella concretezza sapida di gusto e del riverbero di tutte le cose, concretezza passata per l’intimo, ma pure oggettivata con l’amoroso giuoco d’uno specchio. Ed indicava quel crescente bisogno di serio ordine interno, di specialità onesta e non chiusa, di vita poetica preludio a qualsiasi vita critica, di reazione alla retorica e al praticismo che rovinano la cultura e la degradano a mezzo di propaganda o a sfogo sentimentale. Il valore spirituale di Serra consiste dunque nella sua concreta coscienza letteraria, esempio per noi di un coraggio, di una fedeltà, di una serietà umana, che non deliberatamente chiedeva un’accentuazione di moralità, non una concessione all’abbandono. E perciò non ci sembra assolutamente precisa la riduzione dell’uomo ad un impressionista se non dando ad «impressionismo» il significato di un arricchimento parziale, ma non indebito, di un punto di vista strenuamente orgoglioso del proprio sicuro panorama: non un’assenza dalla lotta, ma la sensazione di una discesa nelle catacombe dove il letterato serbi intatto il suo valore piú intimo, punto saldo di ricostruzione per ogni nuova struttura umana. Teniamo perciò ad indicare sotto i lineamenti signorili e pascoliani di Serra una tensione umana che riteniamo fra le piú interessanti del nostro primo novecento.

Già la conoscenza del mondo sentimentale di Serra, attraverso il suo epistolario, ci guida a intendere quel sano calore umano, quel sentimento della realtà come di una misura preziosa, difesa però come qualità coraggiosa. La sua amicizia non era slanciata, fremente, come in Leopardi, o a cuor leggero e sensuale, come in D’Annunzio, ma regolata dal bisogno di risolversi non tanto nelle persone affettuose quanto nelle impressioni che esse suscitano verso la piú umana normalità. Tenendo sempre presente Pascoli, il tono affettivo di Serra è però piú guardingo, meno chiuso nell’intima soddisfazione sentimentale o di gusto, piú cosciente di una serena, ma egoistica utilizzazione degli affetti. Per quanto l’eccessiva perfezione degli scritti (lettere-biglietti girate come gioielli leziosamente semplici e utilitari: «aspetto con certo qual desiderio la lettera che or fanno otto giorni mi annunziasti; né solo per curiosità dei motivi della repentina sospensione, ma anche, nel caso la sosta sia vera fine, per metter mano a qualche altro lavoro o comunque impiegare la mia estate senza piú vincoli») accentui un certo estetismo, il mondo affettivo di Serra è al di sopra di un puro gusto della «bella lettera», del «bel pezzo». Una solida continuità spirituale, aliena da ogni vagheggiamento, una capacità di solitudine da cui scaturiscano anche impegni: «gente come noi vive la vita due volte; come vita e come esperienza spirituale, come materia di osservazione. Questo offende in qualche momento: pare un sacrilegio. Poi non è piú cosí, diventa una consolazione. Il dolore non è mai cosí disperato come quando si sente che anch’esso dovrà finire; l’angoscia il pianto l’orrore resteranno una di quelle cose vane di cui si parla facendo gli affari propri tranquillamente. Non per noi». Anche nella sua critica se spesso affiorano aspirazioni, commozioni che sfiorano il dilettantismo, ricco di un’aria non solamente pascoliana, ma anche dannunziana (del D’Annunzio-Conti: «Quando verrà un tempo in cui persone bennate parleranno ancora lietamente della lieta poesia, per alcun diletto e candidezza dell’anima?»), nell’intenzione del letterato c’è sempre una capacità di esame e di coscienza che illumina ben diversamente che nei tentativi critici pascoliani l’abbandono all’incanto poetico. Anche se le pagine della poetica pascoliana del «fanciullino» storicizzano cosí bene una delle correnti sentimentali che confluiscono nel canone critico serriano delle «cose» (donde la sua preferenza per Pascoli stesso: «la poesia del Pascoli consiste in qualche cosa che è fuori della letteratura, fuori dei versi presi a uno a uno», essa è di cose, è nel cuore stesso delle «cose» e per Kipling è il naturale avviamento al «Ringraziamento», alla descrizione di una poesia come di un paesaggio veduto nel nostro sogno piú vitale), la sua certezza letteraria è tanto piú coraggiosa e perciò tanto piú umana. Egli infatti si spinge fino ad un implacabile rigore, a una purezza che sconcerta come quando parla di Acri quasi come di un letterario Mallarmé: «La lezione severa che viene da lui a chiunque passando il suo tempo a giocare con le parole dà a ciò nomi grossi, e si aggrava di peso materiale impuro inconsapevole; questo uomo di un’altra età, cosí puramente intento e semplice, ammonisce come una figura di santo. Acri è quell’uomo che scrivendo in silenzio, astratto dai rumori del volgo, ha spogliato a poco a poco il suo bisogno ideale di tutte le qualità grosse e sensibili, cura di moda, di plauso, di guadagno, e via procedendo, quasi nella purificazione, ha bandito dalle sue carte il cuore vile, e tutte le passioni tumultuose e impure e tutti gli ornamenti, e a mano a mano tutti gli elementi umani, anche la commozione dell’anima, anche l’ansia del vero; finchè è rimasto nel suo studio, freddo, lui solo, cercando. Cercava la bellezza nel suo principio piú mero, nella musica e nei suoni e nelle parole; nelle parole tentate come suono puro e mosse e secondate come musica di se stessa contenta; la bellezza piú pura e aerea e lontana e difficile, quella che ha nessun corpo nessun peso nessun criterio, ma deve essere colta in sé e nello spirito lieve del fiato». «Egli scriveva; e qualunque cosa, secondo qualunque disegno scrivendo, sempre poteva faticare a scriver bene, e piú bene, e piú puramente. Correggendo e riscrivendo, e rifacendo quei suoi pezzettini di prosa semplice, il sentimento della forma vera, dell’arte in quanto è armonia e moto, operava in lui quasi senza mezzo». Ci si permetta in proposito un riferimento letterario di una certa forza attuale: diremmo che in Italia il risorgente culto di Joubert è dovuto alla preparazione di Serra e che Serra rispetto ad un ipotetico nuovo romanticismo potrebbe assumere una posizione simile a quella del platonico di Villeneuve, tanto vicine sono quelle ferme dichiarazioni al secolo di una moralità di letterato e di una nascita della umanità dalla sensibilità. Ma v’è in Serra una piú salutare cognizione delle infinite certezze umane, il nutrimento voluto del pensiero non semplicemente pretesto di sottile e poetica metafisica, il piano deciso su cui affrontare il problema della serietà, il soccorso della intelligenza dei costumi e dell’anima: di luci piú istintive e piú severe («c’è una voglia di vivere in noi che fa rabbia») si illumina il gradus ad Parnassum di Serra.

Questa indicazione ci avvia a definire piú da vicino il grado di serietà che la coscienza letteraria di Serra contiene per derivarne poi la piú generale affermazione umana, la parola spirituale nella nostra cultura anteguerra. E accertiamo anzitutto come nella formazione lenta e meditativa, con lunghe pause di dissipazione del tempo, l’incanto del letterato consista nel permanere in lui di movenze di critico fine ottocento: e cosí nel suo frasario ove parole nobili, classiche, travolte in un nuovo significato, trovano però un’andatura, un letto coerente di parole, situazioni linguistiche omogenee a quella novità che altrimenti dispersa, rilevata su un lessico di altra moda sarebbe pura e fastidiosa trovata. L’incanto di Serra consiste proprio in questa sua modernità non nervosa, ma decisiva e personale proprio per le innovazioni che sollevano con sé tutta la crosta della sostanza espressiva (perciò ci interessano anche i primi scritti: Su la pena degli scialacquatori, Dei Trionfi di F. Petrarca, dove lo scolaro opera già col suo gusto una trasformazione graduale dell’usuale tessuto critico e dove del resto porta un’esigenza di concretezza, di aderenza all’opera che modifica l’atteggiamento romantico di fronte a tanta poesia meno dichiaratamente passionale).

Le formule e i simboli ora di moda, denotanti come una traslazione di espressioni amorose e teologali nella vita del critico, valgono certamente per Serra nella loro accezione meno leziosa, nella loro piú nobile serietà. Serra non amava il giuoco intellettualistico o l’effetto raggiunto quasi per intenzioni foniche dall’estremo tecnicismo e dava alla chiarezza un valore di onestà, di purificazione, di fedeltà vera ai valori della comprensibilità umana e della tradizione umanistica. Serra non è il volontario padre della critica ermetica ed è tutto arbitrario l’uso gustoso che si può fare del suo sincero modo affettivo a scapito di un fluire naturale del discorso. A questo valore bisogna sottrarre la sua particolare situazione culturale che abbrevia inevitabilmente la sua novità: se egli ha insegnato a «citare» e quindi a «leggere» (non come cita De Sanctis per suffragare la sua intuizione di un mondo poetico, non come cita Croce per distinguere poesia da non poesia, ma per afferrare il sapore d’una poesia come entità affermata e per dare a tutto il pezzo la sua luce particolare,) trova però limitata la sua diretta sensibilità da un pericolo di snobismo («Già, io di critica seria non ho mai conosciuto altro che la lettura pura e semplice, e poi dei divertimenti personali in margine») che poteva creargli una parentela con il peggiore estetismo: ma anche in questi atteggiamenti si avverte quasi la malinconia di una sincerità non meticolosa.

Né si può escludere una insistenza polemica quando si pensi al bisogno che Serra provò sempre di distinguersi dagli altri critici e sopratutto dall’ambiente della «Voce» cui l’amicizia di Ambrosini e, malgrado tutto, una invincibile contemporaneità, lo avevano attratto riluttante.

Le relazioni tra Serra e i vociani e sopratutto tra Serra e Prezzolini che di quel movimento era se non il migliore certo il piú tipico rappresentante, chiariscono la posizione spirituale di Serra e completano quel quadro del primo novecento che è cosí essenziale alla spiegazione del nostro clima attuale. Tutti gli accenni alla «Voce» nell’Epistolario sono nettamente sfavorevoli alla ricerca prezzoliniana di una risoluzione problemistica della civilizzazione italiana e rivelano l’attaccamento ad una tradizione aristocratica, e l’accanita difesa di una posizione pura come principio di concreta vita umana: «lasciamo stare che io mi batterei (si riferisce ad un articolo di Ambrosini a proposito della famosa diatriba del mancato duello Prezzolini-Corradini). Ma battersi o non battersi, questo appartiene alle convenienze, alla bieséance; come il matrimonio religioso e il taglio dell’abito, che si accetta o no secondo porta l’uso del mondo, del paese che si attraversa. Non son cose nostre. Ammettervi un’importanza spirituale, discuterle, farsene un programma e una bandiera, è quasi ridicolo: non è da te. Sei stato troppo della «Voce», a questa volta. Dici bene che i duelli non hanno che fare colle lettere; ma, in nessun modo!».

Era questo praticismo spicciolo e alimentato da persone fuori del cerchio degli «spiriti bennati» («tutto quel D. Murri, quel professorame, quei dottrinari maleducati mi par d’averli sullo stomaco»). Che urtava il suo fermo bisogno di estrema intima serietà: «Aggiungo qualche cosa sulla «Voce». Non che io ne pensi troppo male; e personalmente fo conto non piccolo del giudizio di Prezzolini e dell’ingegno di Papini che dallo studio di Berkeley in qua mi sembra sulla via di mettersi a posto; ma insomma certe fronde non s’ha diritto di farle altro che una volta sola, e prima dei vent’anni: e anche allora solo a patto di non essere molto bene educati. Ma quando nel ’902 s’è fatto il «Leonardo», nel ’909 bisogna avere trionfato o essersi accasati borghesemente. Non s’ha piú diritto di fare la «Voce» senza confessar fallimento. Quando la Bohème diventa posa, è odiosissima: e fa scordare ogni merito di ingegno, di cultura, ogni buona o passabile qualità. E poi è troppo aperta – la «Voce» – ai ragazzi napoletani, cede troppo a quella voglia infantile di farsi un nome attaccandosi ai pezzi grossi: non alle opere, alle idee, ma ai nomi Bellonci a rovescio. Mosche cocchiere. Un giornaletto che nel suo primo numero cominci a dir male per esempio di A. France e con quella intelligenza – anche se nell’ultimo abbia ragione – avrà sempre torto innanzi alle persone per bene. Troppo comodo, vile». S’era perciò rifugiato, di fronte alle insistenti richieste di collaborazione, nella divisa di «umanista» nel senso piú etimologico e piú tradizionale della parola: «A G. Prezzolini: La ringrazio della sua cartolina molto cortese. Se non che, quella si indirizzava non a me, ma ad una immagine che nel mio nome la buona amicizia di Ambrosini aveva suscitata, certo maggiore e migliore del vero. Ahimè! io non ho proprio nulla di ardente di forte di nuovo da dire; forse non ne sento nemmeno il bisogno. Io sono un povero umanista...». Tale atteggiamento finiva per renderlo scontroso di fronte ad ogni mescolanza di etico e di politico (anche i socialisti italiani sono accomunati alla «Voce»: «di Turati, Kuliscioff ecc., penso che siano gran brutta gente e troppo vicini, per la parte dei difetti, a quelli della “Voce”»). Ciò significa un eccessivo distacco dalla scelta che vada oltre l’accettazione ipotetica di tutte le possibilità, e insieme una lontananza per serietà, un disprezzo per amore dell’assolutamente migliore, che potrebbe farci pensare a quel misto di rivoluzionario e conservatore che si trova in Sorel: ma la presenza di una superiore calma celata sotto una ferma indifferenza lo esenta dall’impeto della tesi e della scoperta. Che era poi quello che piú lo disgustava in Oriani. L’esperienza di Oriani è decisiva per lo sviluppo spirituale di Serra, in quanto gli dà il senso d’una retorica vissuta sinceramente, d’un lato del carattere patrio da cui rifuggire: la conoscenza spietata di Oriani uomo («le velleità dell’oratore, del romagnolo, dell’uomo negato alle compiacenze dell’arte pura») lo conferma in quell’aristocratica serietà che lo avvicinava ai valori puri, alle certezze naturali. Ed ecco cosí l’odio per quella sorta di dramma spirituale cui si sarebbe ridotto il canone della critica letteraria del suo tempo, la predilezione per il pretesto della sua avventura piú poetica e abbandonata, Kipling, sentito come l’evocazione di una fiaba, fiaba d’una propria stagione e insieme come soluzione umana senza pretese e senza moralismi: la realtà, la vita che tende a divenir poesia e la poesia che cerca di diventare «cose» («Si potrà cercare il suo libro per puro snobismo, ma, quando si legge, è un’altra cosa. Davvero, non si tratta di letteratura; è un movimento dell’animo pieno e profondo, che va piú giú, a toccare quel che si chiamava un tempo il cuore: la carne, il sangue, i sensi. Si è presi da quelle pagine semplicemente e buonamente come il portinaio dall’appendice della sua gazzetta, come il fanciullo e come il popolino al drammone dell’arena, che vorrebbe saltare nel proscenio a dare una mano all’arrestato contro i carabinieri o a rasciugare le lagrime dell’orfanella tradita»). Ed è da questo atteggiamento che sempre piú decisamente nasce nel critico la volontà di considerare, piú che poesia e non poesia, il mondo realizzato, come natura, come «cose», ancor piú che come strumento di conoscenza delle cose. Donde inevitabilmente Pascoli assurgeva a concreto simbolo della poesia: «Ci sono stati nel mondo di poeti piú grandi, piú felici, piú perfetti del Pascoli; ma di pochi uomini si può dire che siano stati posseduti piú interamente dalla poesia. La poesia era la natura del Pascoli, era la prima cosa in lui; tutto il resto veniva dopo». (D’altra parte, considerando qualità del suo popolo non meno il bisogno di assettare le cose umane che l’eloquenza, Pascoli gli significa, per quanto ad esso da sottili legami legato, il romagnolo anti-Oriani). Non ci sembra perciò molto utile ricercare delle radici teoriche a quell’atteggiamento critico che trova la sua giustificazione in un senso della vita e dell’arte cui la cultura ha solo fornito esempi di tendenze da accettare nel loro particolare come brani della concretezza dello spirito.

Data tale sua ripugnanza ad ogni teorizzamento a scapito della poesia e della vita direttamente attinte, è nettissima anche la lontananza da Croce malgrado la vicinanza delle posizioni aristocratiche. Parlando di un saggio crociano su Ferrari, Serra dice: «Ha notato le cose migliori, ha corretto rapidamente certi errori o convenzioni ricevute dall’opinione comune, e ha seguito poi la sua via che menava altrove». E poi accennava: «la sua critica appartiene piuttosto alla maniera vecchia che alla nuova; molti e molti saggi si direbbero scritti da uno che certo non ha letto l’Estetica. Son saggi di moralità e di psicologia letteraria, che guardano piú che all’artista, all’uomo e al contenuto della opera». «Quasi miglior letterato che critico».

Conscio della posizione di Croce nella cultura italiana, fu il primo letterato a sentire il significato del trapasso da Carducci a Croce. Solo che in Carducci ritrovava quell’onesta e laboriosa fedeltà letteraria che definisce per lui il letterato, e insieme quell’atteggiamento virile che lo difendeva dall’eccitazione escatologica che egli credeva propria della sua razza («Col cuore colmo di ansia egli interroga il destino e spia da che parte debba discendere fra gli uomini la giustizia e la felicità»).

Carducci gli era cosí vicino: «in tutto quello che piú mi importa, nel leggere un libro e nel tollerare la vita. Un sentimento profondo uguaglia noi ai nostri fratelli che sono stati e che saranno. Perennis humanitas. Nessuno può essermi maestro migliore di letteratura e di umanità, per le quali io vivo». Pure questo serio riconoscimento di un motivo dell’anima sfiora un abbandono che costituisce la concessione ad un diritto di solitudine trasposto in validità critica: «Non si tratta di un maestro che potevamo anche non avere e di un libro che potevamo anche non leggere, ma io mi rifiuto di abbandonare insieme con lui la ragione piú profonda del mio sentire, la comunione del passato e la conversazione di tutti i grandi e cari e umani spiriti, e il culto della loro parola cara al mio cuore sopra tutte le cose. Io voglio sapere che c’è nella mia adorazione qualche cosa di vano; che l’amore delle belle parole con tutto quel che reca di sacrificio nel cercarle e nel custodirle e nell’imitarle, di superstizione nel goderle è vano; e son vani i versi e le rime e i libri e i canti e le pitture e i simulacri e le immaginazioni tutte quante; voglio sapere tutto questo per avere la gioia di affrontare ad occhi aperti il pericolo mio dolce». È in questa sublimazione del «pericolo dolce» il segreto del «Ringraziamento»? O non è piuttosto, nella novità del pretesto che motiva una realtà letteraria indiscriminata, l’errore di valutare positivamente la discutibilissima «ballata» che si risolve in pura volontà di descrivere un tempo di gioia? Comunque, da una intensa fedeltà alla poesia e alla vita Serra arrivava alla nuova tendenza critica di vivere attualmente la sintesi critico-opera d’arte, di non staccare la poesia in sé dal momentaneo essere psicologico, umano del critico. Come ci prova il fallimento del tentativo storico delle «Lettere» in cui rifugge sia dal distinguere crociano sia dall’accendere desanctisianamente i lineamenti della poesia, degli uomini e spengere la voce delle consolazioni individuali. Né sempre si può dire che con ciò egli facesse la critica («come gli artisti, dal punto di vista del mestiere»), restando ad ogni modo la capacità distintiva del critico una volontà di comprensione ed una sia pur minimamente infedele schematizzazione. Ma sarebbe angusto a questo punto ridurre i meriti di Serra ai risultati e ai cataloghi del nostro gusto: ha capito questo, non ha capito quest’altro, sulla falsariga di affermazioni filtrate da anni di vaglio e di riflessioni speculative. Le «Lettere» stesse contengono dunque la dichiarazione che lo sforzo di concludere culturalmente non era degno di Serra: sí, vi sono gli appigli, le sporgenze, ma la loro vitalità sta proprio nell’essere immersi in una aria diafana, che non comunica se non illusoriamente con l’alito dei viventi.

Questo coraggio del letterato trova la sua definitiva testimonianza nell’Esame di coscienza di un letterato. La guerra ha avuto vari tipi di letterati, da D’Annunzio a Jahier, ma nessuno ha sentito personalmente come Serra la serietà che quella cosa enorme, mitica, imponeva agli uomini coscienti, e mentre D’Annunzio se ne creava un motivo esaltativo, chi seppe guardarsi e guardare senza ebrezza e senza paura fu Serra. Quando la viltà del vivere comunque e i legami della civiltà cedono alla presenza della morte, gli uomini misurano la voce della loro vita sulla voce della loro agonia: la voce di Serra, alla soglia della guerra, è ferma e sembra parlare da letterato come uomo e da uomo come letterato, anche per altre malattie dell’umanità. «La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa nell’ordine temporale, ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro de le ultime generazioni, e, qualunque parte ove sopravviva, di lí soltanto riprenderà, continuerà di lí. È inutile aspettarsi delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di piú elementare e piú semplice. Ma per il resto, ognuno rimane quello che era».

Il suo umanismo si esaspera («ognuno deve tornare al suo cammino, al suo passato, al suo peccato»), si esaspera contro l’illusoria, trascendente risolutività della guerra che viene ad accettare fuori di ogni giustificazione, di ogni soprastruttura, per intensa certezza della vita, per la passione elementare che ha lievitato sotto tutti i problemi come quel desiderio di giustizia a poco a poco attutito dall’adattamento alla società.

Concluso cosí perfettamente nel suo valore e nei suoi limiti, l’esempio di Serra ci indica una via di coscienza cui la nostra età pone nuovi problemi di socialità, di tecnica, con una urgenza la cui mancanza svaluta la nostra cultura del primo novecento. Ma anche i nuovi problemi vanno considerati con quella rigorosa specializzazione, con quella forza di fedeltà alla letteratura, come vocazione di spiriti ben nati, che Serra nella sua opera ci addita.